Gli psicologi parlano spesso dell’effetto Lake Wobegon🧠, per descrivere la tendenza comune a credere di essere superiori agli altri in molte qualità positive: più simpatici, più intelligenti, più gentili, più affidabili, più saggi. Le ricerche (Kruger & Dunning, 1999) mostrano che la maggior parte delle persone pensa di essere “sopra la media” perfino nella capacità di giudicarsi in modo obiettivo - il che è logicamente impossibile. Se la percezione di sé fosse davvero accurata, metà delle persone dovrebbe ammettere di essere “sotto la media” in qualcosa. Ma non succede quasi mai.
Nella nostra cultura italiana, che conserva tratti fortemente individualistici, essere “nella media” può sembrare quasi inaccettabile. Siamo immersi in una società che esalta la distinzione, il successo personale e la visibilità, dove il valore sembra legato al fatto di emergere. Un esempio evidente è quello dei concorrenti dei talent show come Grande Fratello o X Factor: persone con abilità limitate che appaiono sinceramente sorprese quando vengono eliminate🎭, perché la loro percezione di sé è gonfiata da anni di auto-conferme e incoraggiamenti sociali alla “fiducia in se stessi” più che alla consapevolezza.
Si potrebbe pensare che questo bisogno di sentirsi superiori riguardi solo le culture individualistiche, dove “farsi notare” è un valore. In realtà, anche nelle culture più collettivistiche, dove l’umiltà è più apprezzata, le persone tendono a vedersi “più modeste” o “più rispettose” della media. In ogni cultura, gli esseri umani tendono a auto-potenziarsi, ma lo fanno nei tratti più valorizzati dal proprio contesto sociale.
Ma questa tendenza ha un prezzo: ci separa.⚖️
Quando costruiamo un’immagine ideale di noi stessi, iniziamo a confrontarci costantemente con chi ci circonda. E per sentirci bene, spesso vediamo gli altri in una luce negativa: ciò che gli psicologi chiamano confronto sociale verso il basso. Questo meccanismo può dare un sollievo momentaneo, ma nel tempo alimenta giudizio, distanza e isolamento. Quando ci abituiamo a guardare gli altri solo per sentirci migliori, i nostri pensieri si riempiono di negatività, e il mondo che abitiamo interiormente diventa più chiuso e cupo.
In realtà, questo bisogno di apparire migliori nasce molto presto. Come spiega Eric Berne, fin dall’infanzia riceviamo delle ingiunzioni interiori - messaggi impliciti come “sii perfetto”, “non sbagliare”, “non mostrare debolezza” - che ci spingono a costruire una parte di noi sempre in cerca di approvazione.
Eva Pierrakos la chiama maschera del falso sé 🎭: quella facciata che mostriamo per essere amabili e accettati, mentre dentro di noi restano paura e insicurezza. Quando crediamo di dover essere migliori per valere, non stiamo esprimendo la nostra autenticità, ma solo rinforzando questa maschera. E finché restiamo identificati con essa, restiamo separati non solo dagli altri, ma anche da noi stessi.
Il passo verso la libertà è imparare a vedersi per quello che si è🌱, senza esagerare né sminuirsi: riconoscere con gentilezza che in alcune cose siamo sopra la media, in altre nella media, e in altre sotto ma che va bene così✨. Essere umani significa abbracciare tutta la gamma dell’esperienza: la forza, la fragilità, la luce e l’ombra. Solo così possiamo tornare a sentirci parte del tutto, invece che in competizione con il mondo.